mercoledì 24 aprile 2013

L'ultimo week end insieme a Londra.


Mentre dall’Italia è partito il conto alla rovescia che oggi segna un bel -6 al mio ritorno, io mi sto godendo gli ultimi sgoccioli di questa esperienza. Il fine settimana passato è stato l’ultimo trascorso qui con Lui. Ed è stato piuttosto pieno. Sabato, di buon ora, ci siamo avviati verso Camden Town, un quartiere colorato, ricco di banchetti di tutte le nazionalità che emanano i profumi tipici delle terre di origine. Ad ogni angolo ci si imbatte in gente che suona, che ritrae volti o che dipinge il corpo. Ed è piacevole trovarsi fermi ad ascoltare suonare un ragazzino che ha improvvisato la sua batteria con barattoli e pentole. 


Nel pomeriggio ci siamo spostati a Canary Wharf, per un aperitivo in mezzo ai grattacieli della City. Il sole rifletteva sulle vetrate dei palazzi e l’atmosfera era così brillante da regalarci un vero e proprio spettacolo ad aria aperta, che ci siamo goduti sorseggiando una birretta e sgranocchiando dei pistacchi. Io tutte le volte che vado in questo posto mi incanto, perché secondo me è qualcosa di esageratamente bello e particolare. Questi imponenti grattacieli si innalzano improvvisamente come schegge nel cielo di una Londra tradizionalmente elegante. 


La nostra permanenza in questa zona è terminata con un giretto all’interno della sede di una prestigiosa banca, Barclays, che si trova dentro ad uno dei suddetti grattacieli. Ecco, lasciando da parte il lusso della struttura, io mi chiedo perché il luogo adibito ai colloqui è stato posizionato proprio all’ultimo piano. I divanetti bassi in pelle bianca e i tavolini di cristallo posizionati davanti ad una vista mozzafiato distrarrebbero anche il più concentrato della terra. Bello, bello, ci è piaciuto e io lo guardavo un po’ con occhi sognanti, non tanto il grattacielo quanto un posto di lavoro lì dentro. La serata è proseguita con una cenetta messicana a base di guacamole e burritos in un localino sul lungofiume nella suggestiva zona di Southwark. Ma prima di ritornare a casa non ci siamo fatti mancare una passeggiata lungo il Millennium Bridge, sotto il cielo di una Londra notturna, illuminata e strepitosa.
La Domenica mattina l’abbiamo dedicata al Madame Toussaud, che senz’altro vale una visita ma non i 30 pound a testa di ingresso. Però, considerando che avevo un biglietto omaggio, il prezzo è diventato la metà e quindi il museo ce lo siamo goduti ancora di più. Il pomeriggio, invece, ci siamo scatenati nello shopping. Lui non ama fare spese e solitamente la cosa deve essere il più indolore possibile. Tuttavia, Londra ha avuto il potere di corrompere anche Lui. Allora, voi non ci crederete, ha riempito la valigiaaaaaaa! È impazzito totalmente. Ci siamo divertiti un sacco, Lui che ogni secondo mi chiamava per dirmi che “quasi quasi provo anche questo, che dici?” e “non ti azzardare ad andare nel reparto donne, che ho bisogno dei tuoi consigli e tanto avrai già svaligiato il negozio” e io che mi incuriosivo nel vederlo in questa veste, così preso dallo shopping e dagli “affari” che Londra offre. La sera, poi, ci siamo rilassati di fronte ad uno squisito piatto di noodles thai. 
Lunedì mattina ci siamo svegliati con il sole e per questo abbiamo deciso di andare verso Liverpool street, dove Lui avrebbe preso l’autobus per l'aeroporto, a piedi. Abbiamo fatto una bella passeggiata, attraversando l’imponente Tower Bridge e costeggiando il Tamigi. 


Giunti a destinazione, ci siamo salutati sapendo però che stavolta per rivederci dovremo aspettare soltanto una settimana. Sono felice.

sabato 20 aprile 2013

Ansia da ritorno.


Essendo sulla via del ritorno diventa difficile non immaginarsi nuovamente in quella piccola realtà da cui sono partita e che tra dieci giorni mi vedrà ritornare. Una realtà che ho sempre pensato fosse quella in cui avrei voluto trascorrere la mia vita, come spiegai in questo post. Tuttavia, ora mi ritrovo ad essere un pò preoccupata. Perché i giorni seguenti al mio ritorno saranno bellissimi, tutti vorranno vedermi e saranno giornate piene, ma passato l’entusiasmo iniziale? Quella realtà, seppure bellissima, è priva di stimoli. E solo quando questi stimoli li hai provati ti rendi conto di non poterne più fare a meno. Quando manifesto le mie perplessità a qualche amica, mi sento rispondere “oh, alla fine in questo posto ci hai sempre vissuto, che ti è preso ora?”. Mi è presa la paura di spegnermi, ecco cosa mi è preso. Non voglio perdere l’energia che mi sta scorrendo all’impazzata nelle vene, voglio che questa continui ad essere il motore principale delle mie giornate. 
L’unico che veramente mi comprende è Lui. Perché ci è passato prima di me. Quando dopo aver vissuto a Roma tornò nella nostra realtà, iniziò ad oscurarsi giorno dopo giorno. Gli bastò tornare in quella città che lo vide aprire le ali per riacquisire nuovamente quella contagiosa luce negli occhi. In questo siamo molto simili, ad entrambi ci piacciono realtà stimolanti. 
Ovviamente il mio paese rimarrà per sempre il luogo in cui io ritornerò. Perché li ci sono nata e cresciuta, perché lì c’è la mia famiglia, ci sono i miei affetti più cari. Perché ogni vicolo mi riporta indietro nel tempo e la sensazione di pienezza nel cuore è unica. Perché quella è la tana dei miei ricordi più preziosi. Ma so che il mio futuro non sarà lì, o perlomeno al momento mi vedo altrove. Mi vedo in un luogo che mi rappresenti, un luogo compatibile con le mie caratteristiche e che sia in grado di mantenere a galla questa energia che si è scatenata dentro di me. Tuttavia, non è necessario che questo posto si chiami Londra. Sebbene Londra mi ha cambiata per sempre. Ed è quasi incredibile che in così relativamente poco tempo questa città sia stata in grado di travolgere i miei progetti. Ma tutto diventa credibile osservandola. È una città che se decidi di esserne spettatore, ti sorprende; ma se riesci a lasciarti andare e ad interagire con lei, ti rapisce veramente. È come entrare in un labirinto e non trovarne più la via d’uscita. Io questa uscita, tuttavia, la sto intravedendo e tra poco la raggiungerò; però, una volta fuori, spero che ad attendermi ci sia un ponte che mi permetta il passaggio in un altro altrettanto travolgente labirinto.

martedì 16 aprile 2013

Good luck baby.



Già Sabato mattina quando ho preparato la borsa per il lavoro, nel piegare la divisa per un attimo mi sono sentita mancare l’aria. Si, perché dovevo portare con me non soltanto quella che avrei indossato il giorno, ma anche l’altra, quella di ricambio. Le ore sono passate veloci e ogni tanto mi scoprivo sorpresa a osservare quel luogo in cui ho girato come una trottola per giornate intere, quel ristorante che quando la prima volta mi accolse non sapevo che sarebbe stato il covo di un’esperienza unica. Un lavoro umilissimo che, tuttavia, mi ha dato tanto, tantissimo e che quando mi vide muovere i primi passi ero chiaramente l’ultima arrivata e, per questo, in base alle tradizionali regole di gerarchia, il mio nome era sempre il più pronunciato di fronte ai lavori più “sporchi” o più noiosi. Nonostante questo, non mi sono mai sentita frustrata, ma semplicemente arricchita e orgogliosa, sebbene molte volte abbia sognato una scrivania all’ennesimo piano di un grattacielo della City. Ho sempre percepito che questa esperienza lavorativa era fonte di ricchezza per me. Tuttavia, piano piano mi sono creata il mio posticino lì dentro; la targhetta sulla maglia della divisa con scritto “trainee”, ovvero quella che indossa appunto l’ultimo arrivato, col tempo ha lasciato spazio al mio nome. E ottenerla, è stata una piccola soddisfazione. Questa stessa targhetta ora non è più attaccata alla mia maglia, ma giace sul mobile della mia camera, perchè per ricordo l’ho voluta. Un piccolo gadget che rappresenta questa indimenticabile esperienza che proprio Sabato scorso è terminata. Mi sono licenziata. Perché volevo che le ultime due settimane prima della partenza fossero dedicate interamente a me e a questa città che, mesi fa, mi vide arrivare timorosa e spaventata e, tra poco, mi lascerà andare più coraggiosa e indipendente; desideravo vivermi questo posto al 100%; volevo avere il tempo per godere di ogni attimo. E con un lavoro full time, non sarebbe stato possibile. Per cui, un giorno arrivai al lavoro e chiesi di poter parlare con il manager. Gli comunicai che me ne sarei andata e che quindi da quello stesso istante avrebbe avuto inizio il mio preavviso. Ero piuttosto preoccupata della reazione dei capi, pensavo che si risentissero un po’ e, soprattutto, temevo che il resto dei miei giorni lì dentro diventasse poco piacevole. Invece, sono rimasta meravigliosamente sorpresa. Ho incontrato una comprensione unica, che decisamente non mi aspettavo. Gli ho spiegato che sarei tornata in Italia perché avrei voluto continuare la mia strada, i miei progetti ma che quel ristorante ha senz’altro contribuito a rendere strepitosa la mia avventura a Londra e, soprattutto, mi ha dato tanto a livello personale e di esperienza. Per questo, a loro andava il mio grazie, un grazie di cuore. Mi sono sentita rispondere che se la strada della mia vita per qualsiasi bislacco motivo mi dovesse riportare in questa terra, le porte di quel ristorante per me, in futuro, saranno aperte. Perché loro si sono trovati bene con me. E, lasciatemelo dire, fa piacere. Così pianificammo il tutto e in base all’orario della settimana, quello di Sabato sera sarebbe stato il mio ultimissimo turno di lavoro. A fine turno, sono scesa a cambiarmi e quando sono risalita li ho trovati tutti lì, manager e colleghi, ad aspettarmi seduti al tavolo numero 1, quello in cui solitamente durante i break ci fermavamo per fare due chiacchiere, per berci un caffè. Gli sono andata incontro con in mano un sacchetto, con dentro le due divise che dovevo riconsegnare. Mi sono seduta un po’ li con loro ma dentro di me sentivo una morsa che mi stava premendo sul petto, come se mi stesse togliendo a poco a poco il respiro. Sentivo il peso della fine. Perchè a me i finali scombussolano sempre. Ma dovevo trovare il coraggio di andare e, ancora prima, di lasciare quelle divise nelle mani del capo. 
Gli abbracci forti, le raccomandazioni, gli inviti, le promesse e, infine, l’ultimo sussurrato “Good luck baby” mi hanno fatta cedere dall’emozione e, con il volto rigato di lacrime, ho chiuso la porta del “mio” ristorante e con essa un capitolo stupendo della “mia” Londra e, più in generale, della mia vita.


giovedì 11 aprile 2013

In preda ad acciacchetti.


Oggi non sono andata al lavoro, perché ho l’influenza. Ieri sono tornata a casa febbricitante e con un raffreddore senza precedenti. Ho passato la notte in bianco, con dolori alle ossa un po’ dappertutto e con a fianco un sacchetto che piano piano è stato riempito di morti e feriti, ovvero di un numero indefinito di fazzolettini di carta. Comunque, stamattina mi sono ugualmente alzata e preparata per andare al lavoro e solo dopo aver visto che nemmeno la colazione è riuscita a darmi le giuste forze per stare in piedi e solo dopo aver corso il rischio di vedermi arrivare mia madre con un jet privato, ho deciso di rimanere a casa. Quindi, niente, ho chiamato e ho detto che oggi non sarei andata. Ma mi sento una strana sensazione addosso. La stessa di sempre, che mi si presenta ogni volta che manco in un posto in cui era attesa la mia presenza. Perché, in certe circostanze, sento troppo il senso della responsabilità. A volte, prendere le cose con più leggerezza farebbe bene all’anima. Il ristorante è sempre strapieno e con il mio “non posso venire” mi sento di averli lasciati nella m...., mi sento quasi in colpa. Non riesco a fregarmene e dire “oh pace, mi sento male”. Per riuscire a chiamarli e ad avvisarli che non sarei andata, mi sono dovuta preparare fino quasi ad uscire di casa, nella speranza forse di sentirmi meglio in quella mezz'oretta post colazione, per poi interpellare il termometro e capire che solo lui aveva la giusta risposta alla mia debolezza. Debolezza che non mi avrebbe certamente permesso di correre tutto il giorno in mezzo ad un marasma di gente affamata che va e viene, nonostante il mio imperativo “ce la posso fare”. Menomale che poi c’è Lui che mi ridimensiona un po’ dicendomi: “Guarda che non ti daranno nessun premio per la devozione al lavoro, ne tantomeno ti faranno la statua. Quindi se ti senti male stattene a casa, non lo vedi che sei uno straccio?”.
Vabbè, quelli del lavoro non mi hanno detto nulla però si sono voluti accertare della mia presenza domani.


In compenso sono sempre più pazzi. Martedì, un manager ha ordinato chiesto ad una ragazza di tornarsene a casa dopo neanche mezz’ora che questa aveva timbrato e di ripresentarsi al lavoro soltanto quando sarebbe stata più sveglia e attiva. Evidentemente per lui, quella mattina, lei non era abbastanza scattante per affrontare il turno di lavoro nel modo "giusto". Ora ok, lei non sarà stata tra le più pimpanti ma… CE NE VOGLIAMO RENDERE CONTO?
Giuro che non è fantascienza quella che vi sto raccontando.